Il fatto che le disumane sofferenze patite dai popoli indigeni abbiano finora goduto di scarsa o nessuna attenzione dovrebbe stimolare una riflessione. Come mai episodi tanto gravi - genocidi, stupri, sterilizzazione forzata, tanto per fare qualche esempio - sono potuti passare inosservati per secoli?La risposta è semplice: queste mostruosità non vengono valutate in quanto tali, ma come riflesso della valutazione politica che viene fatta nei confronti di chi le compie. Ecco un esempio. Gli esperimenti ripugnanti sugli esseri umani che il dottor Josef Mengele ha fatto nei campi di concentramento tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale sono rimasti giustamente scolpiti nella memoria collettiva. Niente di simile, al contrario, è accaduto per le sterilizzazioni forzate di donne indigene (indiane e inuit) compiute durante il Novecento negli Stati Uniti e nel Canada. Del resto, sarebbe stato proprio ingenuo pretendere il contrario, dato che il mondo aveva dimenticato il genocidio dei popoli indigeni nordamericani realizzato nei secoli precedenti. Karen Stote, autrice del volume An Act of Genocide: Colonialism and the Sterilization of Aboriginal Women (Fernwood Publishing, Black Point [NS] 2015, pp. 192, $22.95) ricostruisce con estrema precisione questa tragedia dimenticata, concentrandosi sul Canada.Nel secolo scorso il governo di Ottawa adottò misure eugenetiche per controllare la crescita demografica degli indigeni. Per molto tempo la sterilizzazione forzata è rimasta sostanzialmente ignota. La studiosa, grazie alla sua ricerca certosina in archivi a lungo occultati, è in grado di restituirci appieno la sostanza di questi orrori.L'autrice non si limita a documentare, ma accusa i vari governi canadesi di genocidio, in sintonia con i criteri della Convenzione dell'ONU sul tema (Risoluzione 260, 9 dicembre 1948), che fa esplicito riferimento alle "misure prese con l'intenzione di prevenire le nascite".
Per altre informazioni:
http://fernwoodpublishing.ca
Adana (Muziekpublique, 2015) è il titolo del CD che Vardan Hovanissian e Emre Gültekin hanno realizzato in coincidenza con il centenario del genocidio armeno. La collaborazione dei due musicisti ha un significato preciso: Hovanissian (duduk) è armeno, mentre Gültekin (saz, tanbur, voce) è turco. In questo modo vogliono dire che i due popoli, divisi in seguito alla tragedia del 1915, possono trovare nella musica un terreno comune che permetta di superare rancori e incomprensioni.I titolari del disco sono affiancati da due validissimi musicisti belgi: il contrabbassista Joris Vanvinckenroye, leader del gruppo Aranis, e il giovane percussionista Simon Leleux. Il secondo è un componente del Lâmekân Ensemble, fondato nel 2011 da Tristan Driessens, musicista e musicologo fiammingo.Affascinante fusione di influenze anatoliche, armene e jazzistiche, "Adana" sarà presentato venerdì 17 aprile al Théâtre Molière di Ixelles (Bruxelles), Galerie de la Porte de Namur, 3 Square du Bastion.Il CD viene pubblicato da Muziekpublique, un'associazione-etichetta discografica fondata nel 2002 da Marisol Palomo e Peter Van Rompuy per promuovere la musica tradizionale e la world music. La sua attività culturale merita la massima attenzione.
www.muziekpublique.be
Quella che oggi viene chiamata "Mongolia Interna" non è una parte di questa repubblica asiatica, ma è lo specchio di una delle tante tragedieculturali e umane causate dall'espansionismo cinese. Grande quasi quattro volte l'Italia, in gran parte desertica, questa "regione autonoma" della Cina conta 25.000.000 di abitanti; i cinesi costituiscono il 79%, mentre i mongoli sono solamente il 17%.Queste cifre ritraggono la situazione odierna, ma pochi ne conoscono le origini. A colmare tale lacuna provvede in parte il regista francese Jean-Jacques Annaud col suo nuovo film, L'ultimo lupo (Cina-Francia, 2015, 121 minuti).Il film è tratto dal romanzo autobiografico "Il totem del lupo" di Jiang Rong (Mondadori, 2007).La storia è ambientata nella Cina del 1967, durante la Rivoluzione Culturale. Chen Zhen, un giovane studente di Pechino, viene inviato nella Mongolia Interna per insegnare ai bambini delle tribù nomadi. Qui resta affascinato dai lupi e dal loro legame coi pastori. I dirigenti del partito comunista, però, hanno deciso di eliminarli: la modernizzazione socialista ha bisogno di nuovi spazi. Chen Zhen salva un cucciolo di lupo e decide di allevarlo per osservare più da vicino l'animale.Il film è un grido di ribellione contro l'annientamento degli animali e delle culture indigene che viene compiuto nel nome del "progresso".Jean-Jacques Annaud (Juvisy-sur-Orge, 1943) realizza un grande cinema spettacolare profondamente europeo, alternativo a quello americano. I suoi lavori spaziano nelle epoche e nei luoghi più diversi, dalla preistoria ("La guerra del fuoco") all'Italia medievale ("Il nome della rosa"), dal Tibet ("Sette anni in Tibet") alla battaglia di Stalingrado ("Il nemico alle porte").
www.facebook.com/Ledernierloup
www.notoriouspictures.it/schede/wolftotem
Gran parte delle iniziative editoriali realizzate per il centenario del genocidio armeno è costituita da libri che ripercorrono la tragedia e da testimonianze dei sopravvissuti. Fra le poche eccezioni spicca Operation Nemesis: A Story of story of Genocide and Revenge, un volume a fumetti che merita la massima attenzione.Inconsueto è anche il tema: ovviamente il genocidio resta in primo piano, ma l'opera racconta la storia poco nota di Soghomon Tehlirian, il sopravvissuto che uccise Talaat Pasha, il vero architetto dello sterminio dove persero la vita circa 1.500.000 persone. Il volume (Devil’s Due, Chicago [IL] 2015, pp. 144, $14.14 in prevendita su Amazon)) è stato realizzato da Josh Blaylock (testo), Hoyt Silva (disegni) e Greg & Fake Studio (colori). Blaylock è anche il fondatore della casa editrice che pubblica il volume.Il genocidio armeno (1915-1916) fu in realtà lo sterminio di tutte le minoranze cristiane del morente impero ottomano. Nel 1921, a Berlino, Soghomon Tehlirian uccise Pasha. Venne processato per questo delitto, ma assolto.L'omicidio era stato organizzato con cura: "operazione Nemesis" era il nome dell'iniziativa ideata da alcuni membri della diaspora armena.Joshua Blaylock ha scritto testi per numerosi fumetti, fra i quali Kore, Mercy Sparx e Misplaced. Inoltre ha scritto il libro "How to Self-Publish Comics: Not Just Create Them" (Devil's Due, 2006). Nel 1999 ha fondato la casa editrice Devil's Due.Hoyt Silva, disegnatore statunitense, ha realizzato diversi albi a fumetti, fra i quali i tre volumi della serie "Quatermain: Ghosts of the Nzadi" (Bluewater Productions, 2014).
Per altre informazioni:www.devilsdue.net
www.joshblaylock.typepad.com
http://thehoyt.tumblr.com
Il 9 aprile uscirà nelle sale italiane Il padre, il nuovo film di Fatih Akin, dedicato al genocidio armeno.Il film (tit. orig. "The Cut", Germania, 2014, 138') racconta gli orrori del genocidio e l'avventurosa ricerca di sopravvissuti da parte dei loro parenti. Il lungometraggio è interpretato da Tahar Rahim, Simon Abkarian, Arsinée Khanjian, Akin Gazi, George Georgiou e altri attori. La sceneggiatura è stata scritta dal regista insieme a Mardik Martin.La colonna sonora è di Alexander Hacke, già collaboratore di Akin nel documentario "Crossing the Bridge. The Sound of Istanbul" (2005). Fatih Akin (Amburgo, 1973), regista e sceneggiatore turco, ha diretto vari film, fra i quali ricordiamo "La sposa turca" (2004), "Ai confini del paradiso" (2006) e "Soul Kitchen" (2009).
Per altre informazioni:http://the-cut.pandorafilm.de
Esce in questi giorni Nanna, il nuovo CD del cantautore Xavier Rudd.Per la prima volta l'artista australiano si presenta con un gruppo, The United Nations, composto da otto musicisti originari di varie parti del mondo: Australia, Germania, Papua Nuova Guinea, Samoa e Sudafrica. IL CD è ricco di influssi rock, country e reggae.Rudd e il suo nuovo gruppo hanno in programma un tour europeo che comincerà a Londra il 25 giugno e si concluderà a Monaco di Baviera il 16 luglio. Sono previste anche tre date italiane: Roma (7 luglio), Sestri Levante (8 luglio) e Sesto San Giovanni (9 luglio).Xavier Rudd (Torquay, Victoria, 1978) è un musicista influenzato dal country americano e da varie musiche indigene (aborigena, amerindiana e hawaiiana). Polistrumentista, suona fra l'altro chitarre, flauto, percussioni, tastiere e didgeridoo. Figlio di un meticcio, nei suoi brani inserisce frequenti richiami ai diritti degli indigeni australiani. Fra i suoi CD ricordiamo "Solace" (2004) e "White Moth" (2007).
Per altre informazioni:www.xavierrudd.com
È uscita la nuova edizione dell'Atlas des religions, aggiornata e ampliata rispetto alla precedente (2014). Pubblicato come sempre dal quotidiano "Le Monde" e dalla rivista cattolica "La Vie", questo atlante (pp. 188, € 12) è l'unica pubblicazione che fornisca un panorama dettagliato dei fenomeni religiosi contemporanei. Il paesaggio religioso mondiale viene scandagliato facendo ampio riferimento alle sue implicazioni culturali, storiche e territoriali. Alla pubblicazione hanno contributo numerosi esperti della materia. Una guida necessaria per chi vuole comprendere il momento storico che stiamo vivendo.
http://boutique.lemonde.fr/le-monde-hors-serie-atlas-des-religions.html
Uno dei dogmi storici più radicati è quello che per lungo tempo aveva visto nella Shoah una tragedia unica e irripetibile. Poi, piano piano, questa convinzione ha cominciato a vacillare. Soprattutto perché nella seconda metà del Novecento il nostro pianeta è stato insanguinato da molti altri genocidi: Biafra, Bosnia, Cambogia, Darfur, Ruanda, Tibet...
Al tempo stesso abbiamo preso piena coscienza del genocidio armeno, o per meglio dire di tutte le minoranze cristiane dell'impero ottomano.
Molti studiosi autorevoli hanno cominciato a contestare l'unicità del genocidio ebraico: ovviamente non per minimizzare questa tragedia, le cui proporzioni gigantesche sono innegabili, ma semplicemente per inserirla in un ampio quadro storico di tipo comparativo.
Buona parte del mondo culturale ebraico, come sappiamo, ha rifiutato questa nuova lettura, riaffermando che l'unicità della Shoah non poteva essere messa in discussione. Alcuni arrivavano a sostenere che negarla rappresentasse un'offesa per le vittime.
Ma ormai anche questo tabù sta cadendo. La Giuntina, la più prestigiosa case editrice ebraica italiana, ha pubblicato recentemente il libro "Pro Armenia. Voci ebraiche sul genocidio armeno" (da noi segnalato il 20 gennaio scorso). Questa scelta editoriale non lascia più spazio a nessun dubbio.
Non si tratta comunque di una posizione isolata. Il nuovo numero dell'autorevole "Revue d'histoire de la Shoah" (202, mars 2015) ha infatti per tema Se souvenir des Arméniens 1915-2015: Centenaire d'un génocide.
Il fascicolo - un volume di circa 400 pagine - propone una grande varietà di documenti (archivi diplomatici e militari, lettere, rapporti e testimonianze) che spiegano lo sviluppo degli avvenimenti relativi al genocidio armeno privilegiando un'ottica comparativa.
La "Revue d'histoire de la Shoah", nata nel 1946 come "Le monde juif", è la sola pubblicazione europea interamente dedicata alla storia del genocidio ebraico. La rivista semestrale si inserisce nell'ampio ventaglio di initiative culturali e didattiche promosse dal Mémorial de la Shoah (17 rue Geoffroy l'Asnier, Parigi). Concepita di regola con formula monografica, la pubblicazione ospita scritti dei maggiori esperti sel tema. Attualmente diretta dallo storico Georges Bensoussan, viene pubblicata dall'editore Calmann-Levy.
Ha pubblicato anche dei numeri dedicati ad altri genocidi: "Les Tsiganes dans l'Europe allemande" (167, septembre-décembre 1999), "Ailleurs, hier, autrement: le génocide des Arméniens (177-178, janvier-août 2003), "Rwanda. Quinze ans après. Penser et écrire l’histoire du génocide des Tutsi" (190, janvier-juin 2009).
www.memorialdelashoah.org
http://calmann-levy.fr
Come abbiamo visto, il centenario del genocidio armeno viene accompagnato da un'intensa attività editoriale italiana e straniera. Se questo era prevedibile, molto meno scontato era invece che numerosi scrittori turchi partecipassero sinceramente a questa commemorazione, rompendo lo stereotipo che li vorrebbe tutti allineati sul negazionismo di Ankara.
Negli anni scorsi il genocidio armeno era stato apertamente denunciato da Orhan Pamuk, Premio Nobel 2006 per la letteratura; da Elif Shafak autrice del romanzo "La bastarda di Istanbul"; dal politologo Taner Akcam, autore del saggio "Nazionalismo turco e genocidio armeno". Ma le loro voci, per quanto autorevoli, erano rimaste voci isolate.
Le cose cambiano radicalmente, invece, se consideriamo anche tanti giornalisti turchi, ignoti in Italia, come Yavuz Baydar, Erkol Özkoray e Dogan Ozgüden, dissidente che vive in Belgio da molti anni.
A loro dobbiamo aggiungere un'altra figura autorevole della cultura turca, la scrittrice Pinar Selek, autrice di Parce qu'ils sont arméniens (Liana Levi, Paris 2015, pp. 96, € 10, ebook € 7,99).
L'autrice racconta quello che ha significato per lei crescere in un paese come la Turchia, affetto da un forte complesso di superiorità nei confronti delle minoranze; dove i nomi armeni sono stati cancellati dalle insegne; dove anche molti movimenti dell'estrema sinistra, che la donna ha conosciuto bene, hanno fatto proprio il negazionismo ufficiale.
Con questa testimonianza toccante e autocritica Pinar Selek denuncia apertamente la violenza verbale e fisica sulla qaule è stata edificata la repubblica turca.
Al tempo stesso, auspica che dai fermenti sociali degli ultimi anni possa nascere quel mutamento radicale di cui il paese ha bisogno.
Pinar Selek (Istanbul, 1971), sociologa femmminista, è nota per il suo impegno in difesa delle minoranze di vario tipo (Kurdi, omosessuali, poveri, etc.). Ha scritto vari libri che sono stati pubblicati in Turchia, Francia e Germania. Accusata di aver partecipato a un attentato, è stata condannata e infine assolta. Oggi vive in Francia. Liana Levi ha pubblicato anche il suo romanzo "La maison du Boshphore" (2015).
www.lianalevi.fr
Nonostante la stampa si concentri sulle tendenze separatiste europee - Catalogna, Fiandre, Scozia - sarebbe un grave errore pensare che il fenomeno indipendentista fosse limitato al nostro continente.
Lo dimostra Let's Split! A Complete Guide to Separatist Movements and Aspirant Nations, from Abkhazia to Zanzibar, dove Christopher F. Roth cerca di realizzare una mappatura mondiale dei movimenti politici che aspirano alla creazione di uno stato indipendente.
Il volume (Litwin Books, Sacramento [CA] 2015, pp. 634, $75.00) si propone un compito tutt'altro che semplice, data la notevole instabilità del panorama. Accanto alle rivendicazioni consolidate, come quella scozzese e catalana, esistono infatti una pletora di cause effimere che scompaiono quando viene meno il movimento politico che le porta avanti. In alcuni casi, bisogna dirlo, si tratta di iniziative goliardiche assolutamente prive di una vera consistenza politica.
Il libro spazia dai movimenti legalitari a quelli che fanno uso della violenza e perfino del terrorismo. In altri casi, invece, si tratta di stati virtuali - per esempio l'Abkhazia - cioè di paesi dove esiste già una struttura governativa con esercito, ministeri, etc.
L'ambizione della completezza impone a Roth di includere la famigerata "Padania", ma a nostro parere si tratta di una rivendicazione ormai tramontata: anche se il nome ufficiale del partito di Matteo Salvini rimane "Lega Nord per l'indipendenza della Padania", sembra che questo obiettivo sia stato accantonato definitivamente. Completano il volume 46 mappe e 554 bandiere.
Merita attenzione anche la casa editrice Litwin, il cui catalogo propone altri volumi stimolanti. Fra questi spicca "Import of the Archive: U.S. Colonial Rule of the Philippines and the Making of American Archival History" (2013) di Cheryl Beredo, che ci permette di approfondire l'epoca della dominazione coloniale statunitense nelle Filippine (1898-1916).
Christopher F. Roth è un antropologo che si occupa soprattutto di nazionalismo e di questioni etniche. Ha lavorato oer vari anni coi popoli indigeni della British Columbia e dell'Alaska. Ha pubblicato vari libri, fra cui "Becoming Tsimshian: The Social Life Of Names" (University of Washington Press, 2008). Lavora come Lettore alla University of Wisconsin di Milwaukee.
www.litwinbooks.com
L'Asia offre numerosi esempi di conflitti che vedono protagonisti popoli indigeni, minoranze culturali e religiose. Si tratta di un panorama che cambia continuamente, fermi restando certi contrasti meno recenti che stentano a trovare una soluzione duratura.
Il libro Ethnic Subnationalist Insurgencies in South Asia: Identities, Interests and Challenges to State Authority (Routledge, London 2015,
pp. 198, $145.00) si concentra sul subcontinente indiano (Bangladesh, India, Nepal, Pakistan e Sri Lanka), che occupa un decimo dell'intero continente.
Curato da Jugdep S. Chima, il volume raccoglie articoli di numerosi esperti, fra i quali Lawrence E. Cline, Adeel Khan e Jayadeva Uyangoda.
L'opera analizza le motivazioni profonde delle ribellioni e lo sviluppo dei movimenti che le esprimono.
Questioni piuttosto note come quella tamil e quella sikh vengono integrate dall'analisi di conflitti che affliggono regioni meno conosciute ma altrettanto rilevanti in termini sociali e geopolitici (Balucistan, Chittahong Hill Tracts, etc.).
Attraverso il metodo comparativo gli autori ricostruiscono il quadro sociale, politico e culturale dei casi analizzati.
Jugdep S. Chima è Assistente di Scienze politiche allo Hiram College (Ohio/Stati Uniti). Ha pubblicato il libro The Sikh Separatist Insurgency in India: Political Leadership & Ethnonationalist Movements (Sage, 2010).
Per altre informazioni.
www.routledge.com
I militanti dell'ISIS continuano a uccidere, con una ferocia particolarmente spietata nei confronti dei cristiani assiri. Alcuni membri del movimento islamista hanno inoltre distrutto a picconate molti monumenti delle civiltà mesopotamiche. Tesori antichissimi sono stati ridotti in briciole, mentre altri sono stati rubati e rivenduti per finanziare l'imponente sforzo bellico del "califfato".
Per adesso, purtroppo, la furia sanguinaria dell'ISIS resta oggetto di ampi dibattiti televisivi, ma sul fronte politico non si intravedono iniziative capaci di contrastarla. L'Unione Europea, limitata dal predominio dell'economia, pare insensibile a questi gravissimi problemi. Dopo la recente esecuzione di 15 assiri da parte dell'ISIS è caduto per la prima l'insensato tabù verbale che per molti anni aveva impedito alla stampa italiana di chiamarli con il loro nome: Assiri.
Dimenticato da molti sui banchi di scuola, soprattutto in Italia, questo popolo mediorientale ha riacquistato visibilità negli ultimi anni, ma soltanto in seguito ad eventi tragici che l'hanno visto dalla parte dei perseguitati.
Cristiani appartenenenti a quattro confessioni, stanziati soprattutto in Irak e Siria, hanno patito la repressione di Saddam Hussein, ma la
loro situazione è ulteriormente peggiorata in seguito all'invasione americana dell'Irak. Gli americani hanno assegnato un ruolo preminente ai Kurdi, permettendo così che anche questi opprimessero la minoranza assira.
Il recente libro Reforging a Forgotten History: Iraq and the Assyrians in the 20th Century (Edinburgh University Press, Edinburgh 2015, pp. 432, £80.00) ricompone la storia assira inserendola nel processo di formazione dello stato iracheno.
Scritto dallo studioso assiro Sargon George Donabed, questo è il primo libro sul tema. Un'opera che finalmente scardina lo pseudonimo di un Irak monoculturale (cioè arabo), restituendoci la ricchezza e la complessità di questo paese mediorientale e delle regioni confinanti.
L'opera include rari documenti in arabo e in aramaico.
Sargon George Donabed è Assistente di Storia alla Roger Williams University di Bristol (Rhode Island/USA), dove insegna Storia mediorientale e Studi religiosi. Autore di numerosi saggi sulla questione assira, ha contribuito fra l'altro al volume "The Assyrian Heritage: Threads of Continuity and Influence" (Uppsala University, 2012), sia come autore che come curatore.
www.euppublishing.com
Gerry Conlon, originario di Belfast, aveva soltanto 20 anni quando fu accusato di uno dei più sanguinosi attentati compiuti dall'I.R.A. in Gran Bretagna. Era il 1974 e con lui altri tre giovani irlandesi furono incastrati, divenendo noti come i "Guildford Four".
La loro unica colpa era quella di essere irlandesi e di trovarsi in Gran Bretagna (dove cercavano un lavoro) negli anni più drammatici del conflitto nordirlandese. Vennero trasformati in capri espiatori perfetti: sottoposti a maltrattamenti e pressioni psicologiche, costretti a firmare false confessioni, vennero infine condannati all'ergastolo. Ma l'isteria anti-irlandese di quegli anni avrebbe portato in carcere altri innocenti: il padre di Gerry, Giuseppe Conlon, arrivato a Londra per sostenere il figlio, venne accusato di trasporto di esplosivi e condannato a dodici anni di prigione. Gravemente malato e privato delle cure necessarie, morì in carcere nel 1980.
L'innocenza di Gerry Conlon e degli altri sarebbe stata riconosciuta soltanto 15 anni dopo, nel 1989, dimostrando che i rappresentanti dello Stato britannico avevano falsificato le prove a loro carico.
Dopo una lenta e faticosa rinascita, Gerry ha trovato dentro di sé la forza per combattere ancora, facendo diventare la sua vicenda un esempio e un monito, in Irlanda e nel resto del mondo.
Il documentario In the Name of Gerry Conlon, autoprodotto e autofinanziato, nasce dalla lunga intervista rilasciata da Gerry nella sua casa di Belfast, pochi mesi prima della morte. La sua storia è ricostruita per la prima volta nel dettaglio dalle sue vive parole e utilizzando rare immagini di repertorio.
L'autore e l'ideatore di questo documentario è Lorenzo Moscia. Nel 2013 ha intervistato per molti giorni Gerry Conlon e ha poi selezionato e montato le immagini del documentario, per il quale ha anche composto le musiche.
Fotoreporter e documentarista italiano, Lorenzo Moscia ha vissuto a lungo in Cile, lavorando per importanti riviste locali (El Sabado del Mercurio, El Semanal de la Tercera, New York Times, Der Spiegel, Corriere della Sera, La Repubblica).
Nel continente sudamericano ha coperto gli eventi più importanti degli ultimi anni, dalla guerra civile haitiana alle elezioni ecuadoriane. Nel 2012 è tornato a vivere a Roma, sua città natale, dove lavora per le agenzie fotogiornalistiche Archivolatino (Argentina), Reduxpictures (Stati Uniti) e per la rivista Caras (Cile).
A Belfast Moscia ha conosciuto Riccardo Michelucci, giornalista e scrittore, esperto della questione irlandese, alla quale ha dedicato il libro "Storia del conflitto anglo-irlandese, il libro nero del colonialismo inglese in Irlanda". Tra loro è nata un'amicizia che va oltre la condivisione di certi ideali. Da questa amicizia è nata l'idea di collaborare alla realizzazione di questo documentario.
Come mai ci serve il vostro aiuto
Siamo a buon punto, ma restano ancora molte cose da fare: la post-produzione, il montaggio dei sottotitoli in inglese, italiano e spagnolo, l'accertamento dei diritti d'autore, la stampa e la promozione dei DVD.
Vi chiediamo di credere nel nostro progetto e di diventare nostri mecenati con un contributo, anche modesto, in modo che possiamo portare a termine il lavoro e veicolarlo nel miglior modo possibile.
https://www.indiegogo.com/projects/in-the-name-of-gerry-conlon/x/7239402
L'11 luglio prossimo cadrà il ventennale del massacro di Srebrenica, dove l'esercito serbo-bosniaco guidato dal generale Ratko Mladic uccise ottomila musulmani. Naturalmente ne riparleremo. Adesso, invece, segnaliamo un nuovo libro che ci consente di situare quella tragedia in un quadro storico molto più ampio, quello che preparò il terreno alla disintegrazione della federazione jugoslava.
Si tratta di Pourquoi et comment la Yougoslavie a disparu? Chroniques d'une dislocation annoncée (1979-1991).
Il libro (L'Harmattan, Paris 2015, pp. 318, € 29), che raccoglie numerosi articoli scritti da Marc Gjidara fra il 1979 e il 1991, ripercorre la degradazione della situazione jugoslava seguita alla morte del fondatore Tito (1975). Totalitaria fino dalla nascita, la federazione si dimostra incapace di adeguarsi ai profondi cambiamenti che interessano il blocco comunista europeo: Polonia (1987), Ungheria (1988), paesi baltici (1989), Bulgaria e Romania (1990).
Il libro di Gjidara corregge in parte lo squilibrio fra l'ampia pubblicistica dedicata alle guerre jugoslave e la scarsa attenzione per le cause che hanno portato alla disgregazione della federazione balcanica.
Marc (Marko) Gjidara ha insegnato varie discipline giuridiche all'Université Paris II Panthéon-Assas e a Zagabria. Ha pubblicato vari libri, fra i quali "Le nettoyage ethnique" (Fayard, 1993), scritto insieme a Neven Simac e Mirko D. Grmek.
www.editions-harmattan.fr