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Standing on Sacred Ground

Dopo otto anni di lavorazione arriva finalmente Standing on Sacred Ground, un documentario in quattro parti interamente dedicato alle lotte indigene per la difesa dei siti sacri. Quest'opera monumentale merita la massima attenzione, specialmente da parte di chi segue le vicende attuali dei popoli autoctoni.
La serie, divisa in quattro episodi, verrà trasmessa sul World Channel della PBS il 17 maggio (prima parte), il 24 maggio (seconda), il 31 maggio (terza) e il 7 giugno (ultima).
Il progetto è stato sostenuto dall'Earth Island Institute, l'importante organizzazione ecologista fondata nel 1982 da David Ross Brower. Il documentario, prodotto dal Sacred Land Film Project, racconta otto storie di comunità indigene sparse in varie parti del mondo. 
Nella prima parte, intitolata "Pilgrims and Tourists", gli sciamani della Repubblica Altai (Russia) e gli Winnemem Wintu della California cercano di proteggere le loro montagne sacre da due devastanti progetti governativi, il gasdotto della Gazprom e la diga di Shasta.
Nella parte seguente, "Profit and Loss", gli indigeni di Papua Nuova Guinea e quelli dell'Alberta (Canada) lottano contro le multinazionali minerarie e petrolifere che vogliono devastare le loro terre. 
Il ciclo termina con "Islands of Sanctuary", che documenta le lotte dei Kanaka Maoli (indigeni hawaiiani) e degli Aborigeni australiani.
I primi cercano, con varie pratiche spirituali ed ecologiche, di restituire a nuova vita l'isola sacra di Kaho'olawe, che per mezzo secolo è stata sede di esperimenti nucleari americani. I secondi difendono le IPA (Indigenous Protected Areas) e cercano di opporsi alle industrie minerarie. 
Scritta e prodotta da Jessica Abbe e Jennifer Huang, la serie è diretta da Christopher McLeod. La voce narrante è quella di Graham Greene, il noto attore oneida protagonista di vari film, fra i quali "Balla coi lupi" (1990), "Cuore di tuono" (1992) e "Storia d'inverno" (2014). "Standing on Sacred Ground" è un'opera d'importanza capitale. 

Per altre informazioni:

www.StandingOnSacredGround.org

www.bullfrogfilms.com

Riu, lo que cuentan los cantos

Recentemente abbiamo segnalato "Ríu, el canto primal de Rapa Nui", l'ottimo libro di Sofía Abarca Fariña sulla cultura musicale di Rapa Nui (Isola di Pasqua).
Attualmente la studiosa cilena sta lavorando alla realizzazione di un documentario dedicato allo stesso tema, Riu, lo que cuentan los cantos, dove viene ripercorsa la vita di María Elena Hotus, l'ultima custode della tradizione orale isolana. 
Il documentario, diretto dal regista Pablo Berthelon, ha ottenuto un finanziamento statale che coprirà l'80% delle spese. Adesso si tratta di raccogliere il restante 20%. Per questo i responsabili del progetto hanno lanciato una sottoscrizione.
"Ríu, el canto primal de Rapa Nui" merita di essere sostenuto: non é il solito film per turisti, ma un progetto serio e autorevole che vuole far conoscere le vere tradizioni musicali e culturali di questa remota isola polinesiana.   
Per altre informazioni: 

http://idea.me/proyectos/29558/riu-lo-que-cuentan-los-cantos

 

Ríu, el canto primal de Rapa Nui

La musica ha sempre svolto un ruolo primario nelle culture indigene (e nelle culture in generale). Specialmente in quelle più isolate, dove certe espressioni musicali possono scomparire senza che il resto del mondo se ne accorga. Lo sa bene Sofía Abarca Fariña, autrice del libro Ríu, el canto primal de Rapa Nui, frutto dei suoi studi sui canti ancestrali di Rapa Nui (meglio nota come Isola di Pasqua). 
Il volume (Lom Ediciones, Santiago de Chile 2015, pp. 272, $24.72 dal sito) offre un esauriente panorama storico e sociale della tradizione orale pascuense, che costituisce una parte integrante della cultura polinesiana. Più che un testo etnomusicologico, il libro è strettamente legato alle esperienze personali dell'autrice, che da parecchi anni è impegnata nello studio e nella conservazione della cultura locale: non soltanto la musica, quindi, ma anche la scrittura rongo-rongo tipica dell'isola. 
In questo contesto i canti ancestrali assumono un ruolo fondamentale.
Un libro importante che colma un vuoto: la cultura rapanui è remota e dimenticata, ma proprio per merita di essere conosciuta e apprezzata.
Sofía Abarca Fariña, musicista e musicologa cilena, è la fondatrice di Nuku te Mango, la prima etichetta dedicata alla musica rapanui.  

Per altre informazioni:

www.lom.cl

www.rapanuimusic.com 

Money-Orient 26

Kurdistan(s): Une nation, des états? è il tema dell'ampio dossier sulla questione kurda che si trova nel nuovo numero di "Moyen-Orient" (26, avril-juin 2015). Numerosi analisti si chiedono se non sia ormai venuto il momento di riconoscere a questo popolo -la minoranza più numerosa del pianeta- il diritto di avere un proprio stato. Questo obiettivo trova però molti ostacoli.
Da una parte, per ovvi motivi territoriali: i Kurdi vivono divisi in quattro stati (Iran, Irak, Siria e Turchia), tutti più o meno contrari all'idea di perdere una parte del proprio territorio. Dall'altra parte pesano le inimicizie storiche fra kurdi. Basti pensare che negli anni Novanta i due maggiori partiti kurdi dell'Irak, il Partito democratico del Kurdistan (PDK) e l'Unione patriottica del Kurdistan (UPK), hanno combattuto una guerra fratricida.
Il dossier ospita contributi di autorevoli specialisti, fra i quali Jean Marcou ("La politique kurde de l'AKP: chimère ou réalité?"), Jean-
François Pérouse ("Les Kurdes à Istanbul: une communauté inexistante?"), Clémence Scalbert-Yücel ("Repères culture : Politiques culturelles et diversité de la scène artistique kurdes en Turquie"), Maria Fantappie ("Repères société: Le désarroi de la jeunesse kurde d’Irak), Olivier
Grojean (Kurde et combattante: une émancipation des femmes par la guerre?) e Hosham Dawod (Irak: Daech contraint les Kurdes à revoir leurs alliances). 
Completano il numero articoli sul Marocco, sulla penisola del Sinai e sull'Arabia Saudita.
"Moyen-Orient, diretta da Alexis Bautzmann, è una rivista di geopolitica dedicata al mondo arabo e musulmano. È nata nel 2009 come erede di "Enjeux Méditerrananée".

Per altre informazioni:

www.moyenorient-presse.com

Indigenous Asias

Indigenous Asias è il titolo del numero monografico di "Amerasia Journal" (XXXXI, 1, 2015) curato da Greg Dvorak (Hitotsubashi University) e Miyume Tanji (Australian National University). Il fascicolo esamina varie questioni indigene relative a certe aree del Pacifico: Filippine, Giappone, Hawai'i e Taiwan.
Fra i vari saggi spicca quello di Guy Beauregard, che si concentra su Tony Coolidge, scrittore-regista indigeno taiwanese; Melisa Casumbal-Salazar analizza l'atteggiamento della cultura filippina verso i popoli autoctoni dell'arcipelago. Eliko Kosaka approfondisce la questione indigena di Okinawa, con particolare attenzione per le opportunità che le Nazioni Unite offrono a un'eventuale autodeterminazione. br>Ancora su Taiwan si concentra Yu-wen Fu, che parla del film "Seediq Bale" e di come questo abbia stimolato la coscienza politica dei Seediq, uno dei popoli indigeni dell'isola. Completano il numero alcune recensioni.

Per altre informazioni:

www.amerasiajournal.org

www.facebook.com/AmerasiaJournal

Ucraina:
Il genocidio dimenticato 1932-1933

Molti popoli e comunità religiose hanno scelto un termine specifico per definire il proprio genocidio: il più famoso è Shoah, mentre i Rom lo chiamano Porrajmos. Metz Yeghern (il grande male) è quello usato dagli Armeni, Seyfo (spada) quello degli Assiri, Olokaftoma (catastrofe) il termine usato dai Greci del Ponto. Ma quasi tutte queste parole sono sostanzialmente ignote, così come lo sono le tragedie alle quali si riferiscono.
Lo stesso vale per lo Holodomor (genocidio per fame), il più terribile crimine di Stalin, che ebbe luogo fra il 1932 e il 1933. 
Nel libro Ucraina: Il genocidio dimenticato 1932-1933 (Dalla Porta, Pisa 2015, pp. 304, € 18) Ettore Cinnella ricostruisce in modo preciso e dettagliato questa tragedia, nella quale morirono molti milioni di persone (sei secondo Cinnella, fino a dieci secondo altri studiosi).
Grazie alle sue certosine ricerche negli archivi dell'ex-URSS lo studioso ci permette di conoscere questa pagina di storia dimenticata.
Il genocidio venne concepito da Stalin per stroncare la resistenza ucraina alla collettivizzazione delle terre. Nei primi anni dell'URSS il paese slavo rivestiva un ruolo centrale per la federazione sovietica, soprattutto grazie alle sue risorse agricole, tanto da esser definita "il granaio dell'Europa".
La collettivizzazione promossa da Stalin per finanziare la crescita industriale dell'URSS aveva avuto effetti disastrosi sulla produttività agricola. Nel 1932 il dittatore stabilì che il 44% del grano proveniente dall'Ucraina fosse inviato a Mosca. Quindi gli agricoltori locali non avrebbero potuto averne finché non fosse stata raggiunta la quota fissata dal potere centrale. Il risultato fu una spaventosa carestia che decimò gli abitanti dell'Ucraina.
Ettore Cinnella (Miglionico [Matera], 1947) è uno dei più autorevoli sovietologi italiani. Ha insegnato per molti anni Storia contemporanea e Storia dell'Europa orientale all'Università di Pisa. Ha pubblicato numerosi libri, fra i quali ricordiamo "La tragedia della rivoluzione russa (1917-1921)" (Luni editrice, 2000), "1905. La vera rivoluzione russa" (Della Porta, 2008) e "L'altro Marx" (Della Porta, 2014).

Per altre informazioni:

www.dellaportaeditori.it

The Great Catastrophe:
Forgotten Genocide - Preserving the Memory
of the Anatolian Greek Genocide 1913-1923

Come abbiamo sottolineato varie volte, nel genocidio ideato e realizzato dai Giovani Turchi (1915-1923) morirono circa 3.000.000 di persone appartenenti alle minoranze cristiane dell'impero ottomano: armeni, assiri e greci del Ponto.
Dei primi si sta parlando molto, come dimostrano i numerosi libri e le altre iniziative che stiamo segnalando negli ultimi mesi. Molto poco si parla invece degli Assiri, purtroppo, e ancora meno dei Greci del Ponto.  
Proprio perciò ci pare doveroso segnalare il documentario The Great Catastrophe: Forgotten Genocide - Preserving the Memory of the Anatolian Greek Genocide 1913-1923. Questa importante iniziativa è promossa dall'Asia Minor and Pontos Hellenic Research Center (AMPHRC), un centro di studi nato per studiare e far conoscere questo genocidio dimenticato. 
Il documentario è in preparazione, ma non è stata ancora raccolta la somma necessaria per realizzarlo.
Perciò gli amici dell'AMPHRC hanno lanciato una sottoscrizione alla quale si può contribuire donando 10, 20, 50, 100 dollari o più.

Per altre informazioni:

http://hellenicresearchcenter.org 

L'île des justes:
Corse, été 42

Durante la Seconda Guerra Mondiale la Corsica è stata teatro di varie vicende che l'hanno differenziata nettamente dagli altri dipartimenti francesi. Nel 1942 l'isola venne invasa dall'Italia che la rivendicava sulla base dei noti legami storici e linguistici.
L'anno dopo, in seguito all'intervento delle forze francesi, fu il primo dipartimento liberato (fuori dal porto di Bastia c'è una targa che ricorda questo primato).
Meno noto, ma molto più rilevante, è il fatto che l'isola fu il solo dipartimento francese dal quale non partirono ebrei destinati ai campi di sterminio. La popolazione locale fornì infatti un prezioso aiuto alla piccola comunità ebraica dell'isola.
Lo conferma il caso di Dolinda Luciani, che il 13 dicembre 1995 è stata riconosciuta "giusta fra le Nazioni" dal Memoriale Yad Vashem.
Prendendo spunto dalle insolite vicende dell'isola, il soggettista Stéphane Piatzszek e il disegnatore Espé hanno unito le proprie forze per creare un interessante albo a fumetti, L'île des justes: Corse, été 42 (Glenat, Grenoble 2015, pp. 88, € 18.50).
La storia ruota attorna a Suzanne Cohen, una giovane ebrea che fugge da Marsiglia col figlio Sacha mentre la città è occupata dall'esercito tedesco. I due riparano in Corsica, dove la donna viene arrestata, mentre il figlio viene nascosto da una famiglia isolana. Suzanne riesce a fuggire e a raggiungere il villaggio di Canari, dove si trova il figlio...
Stéphane Piatzszek, soggettista francese, ha scritto i testi per numerosi albi, fra i quali ricordiamo "Cavales" (2008), "Neverland" (2008) e "Tsunami" (2013). 
Espé (pseud. di Sébastien Portet), soggettista francese, ha realizzato molti lavori, fra i quali "Chansons de Jacques Higelin en BD" (1999),
"Disparition" (2004) e "Le fantôme" (2010).

Per altre informazioni:

www.glenatbd.com

Conflits

Il nuovo numero della rivista di geopolitica "Conflits" (5, 2015) contiene due dossier. Uno è dedicato sulle frontiere politiche, culturali e linguistiche. Fra agli autori spiccano Pascal Gauchon, direttore della rivista, Yves Lacoste, Frédéric Laupies e Bernard Lugan.
L'altro dossier si concentra sullo "Stato islamico" auspicato dall'ISIS. Fra i contributi si segnala un ritratto di Al Baghdadi, capo della formazione terroristica islamica.
Completano questo numero altri articoli, fra i quali un'intervista al geopolitologo svizzero Bernard Wicht e uno sui resti del colonialismo portoghese.  
Alla rivista è allegato un supplemento di 28 pagine dedicato al terrorismo, con particolare attenzione per la situazione irachena.

Per altre informazioni:

www.revueconflits.com

www.anteios.org

In Corsica

In Corsica è appena uscito il primo numero del mensile In Corsica. Diretta da Constant Sbraggia, la nuova pubblicazione intende colmare il vuoto lasciato da "Corsica", che ha cessato le pubblicazioni alcuni mesi fa.
La redazione é composta da scrittori e giornalisti di rilievo: Pierre Barthélémy, Robert Colonna d'Istria, Jérôme Ferrari (Premio Goncourt 2012), Amalia Luciani, Eva Mattei, Julian Mattei, Gilles Millet, Jean-Noël Pancrazi, Antoine-Marie Graziani (Università di Corsica), Alex Vinciguerra e Patrick Vinciguerra.
A questi si aggiungono quattro autorevoli editorialisti: Marc Biancarelli, Jean-Claude Casanova (fondatore della rivista "Commentaire" con  Raymond Aron), Jean-Marie Colombani (ex direttore di "Le Monde") e Marc Fumaroli (storico, membro dell'Académie française).
Dal sommario, dove prevalgono articoli e commenti relativi alla realtà isolana, emerge una particolare attenzione per l'area mediterranea.
All'amico Constant Sbraggia e agli altri colleghi inviamo gli auguri più sinceri per il nuovo giornale. 

Per altre informazioni:

www.facebook.com/incorsicamag

in-corsica@info.com

Ottoman Genocides of the Armenian, Assyrian, and Greek Peoples

Il nuovo numero della rivista accademica "Genocide Studies International" (IX, 1, Spring 2015), realizzata dall'International Institute for Genocide and Human Rights Studies di Toronto (Canada), è dedicato al tema Ottoman Genocides of the Armenian, Assyrian, and Greek Peoples.
Con questo titolo i più qualificati esperti della materia ribadiscono che nel 1915 non iniziò solamente lo sterminio sistematico del popolo armeno, ma di tutte le minoranze cristiane presenti nell'impero ottomano. Quindi anche assiri e Greci.
A livello politico, purtroppo, la consueta linea negazionista che Ankara ha riaffermato nelle scorse settimane non è stata respinta facendo
riferimento alla reale portata storica della tragedia, cioè includendo tutte le vittime. Al contrario, si è preferito limitare la questione al genocidio armeno, sollevando così le autorità turche dal dovere di fare i conti con l'intera tragedia.
Tutto questo significa che certe lezioni del passato non hanno insegnato nulla. Gran parte di coloro -opinione pubblica e media- che avevano lamentato il lungo silenzio sul genocidio armeno sta compiendo lo stesso errore nei confronti delle altre vittime.
Questo numero di "Genocide Studies International" è quindi un potente antidoto contro la disinformazione. Il fascicolo ospita saggi di Roger W. Smith ("Introduction: Ottoman Genocides of Armenians, Assyrians, and Greeks"), Robert Melson ("Contending Interpretations Concerning the Armenian Genocide: Continuity and Conspiracy, Discontinuity and Cumulative Radicalization"), Tessa Hofmann ("The Genocide against the Ottoman Armenians: German Diplomatic Correspondence and Eyewitness Testimonies"), Marc. A. Mamigonian ("Academic Denial of the Armenian Genocide in American Scholarship: Denialism as Manufactured Controversy"), David Gaunt ("The Complexity of the Assyrian Genocide") e V. T. Meichanetsidis ("The Genocide of the Greeks of the Ottoman Empire, 1913-1923: A Comprehensive Overview").

Per altre informazioni: 

www.genocidestudies.org

Articulating Rapa Nui:
Polynesian Cultural Politics in a Latin American Nation-state

Come l'arcipelago hawaiiano, Rapanui è un pezzetto di Polinesia che appartiene tuttora a uno stato americano. La seconda, meglio conosciuta come Isola di Pasqua, fu appunto scoperta dall'olandese Jacob Roggeveen la domenica pasquale del 1722.
Il breve dominio olandese fu presto sostituito da quello spagnolo. Nel 1888 Toro Hurtado si impadronì di Rapa Nui a nome del governo cileno, che promosse l'immigrazione di alcune famiglie continentali. Gli indigeni (Ma'ohi Rapu) vennero costretti a firmare un trattato in base col quale l'amministrazione dell'isola veniva trasferita al governo di Santiago, che si peró si impegnava a rispettare i diritti territoriali e culturali della popolazione autoctona.
Ma il Cile non rispettò l'accordo e costrinse gli indigeni a lavorare come schiavi. L'isola cadde così nelle mani della Compañia Explotadora de Isla de Pascua, che iniziò lo sfruttamento della lana. La compagnia non esercitava soltanto una funzione commerciale, ma anche un rigido controllo della vita sociale ed economica. La popolazione autoctona viveva in condizioni di semischiavitù e non poteva lasciare l'isola. Lo sfruttamento commerciale terminò nel 1953, quando la compagnia lasciò Rapa Nui.
Nel 1966 la situazione dell'isola fu finalmente parificata a quella continentale: gli abitanti ottennnero i diritti civili. Perfino Augusto Pinochet, il primo presidente cileno a visitare l'isola, continuò a garantirli. Dopo la fine della dittatura militare (1990), il governo di Patricio Aylwin approvò nel 1993 una legge relativa ai diritti dei popoli indigeni.
Ma neanche questo fu sufficiente a risolvere la questione dei diritti territoriali, che è tornata d'attalità nell'estate del 2010.
In luglio gli indigeni hanno occupato pacificamente alcune terre reclamandone la restituzione. 
Alla fine del 2010 la polizia ha assalito i manifestanti facendo uso di proiettili di plastica e gas lacrimogeno. Alcuni indigeni sono stati feriti e uno di loro ha perso un occhio. L'episodio è stato denunciato da Amnesty International, che ha richiamato il Cile al rispetto della Convenzione ILO 169 sui diritti dei popoli indigeni, sottoscritta da Santiago nel 2008.
Questa storia, sostanzialmente dimenticata fino a pochi anni fa, viene accuratamente ricostruita dall'antropologa olandese Riet Delsing nel libro Articulating Rapa Nui: Polynesian Cultural Politics in a Latin American Nation-State (University of Hawai'i Press, Honolulu [HI] 2015, pp. 312, $59.00).
Rielaborazione di una tesi di laurea, il libro racconta la colonizzazione dell'isola cercando di individuarne caratteri e dinamiche. L'opera colma un vuoto negli studi sulla storia coloniale del Pacifico, mettendo in evidenza la posizione unica che il Cile ricopre in tale contesto. Naturalmente non mancano i paragoni con le altre avventure coloniali dell'area: Hawai'i (Stati Uniti), Tahiti (Francia), etc.
Nella seconda parte l'autrice descrive la resistenza indigena contemporanea nei suoi vari aspetti: dalla difesa della lingua alle lotte per i diritti territoriali, dai rinnovati contatti con le altre culture indigene del Pacifico ai tentativi di internazionalizzare la questione.
Un'opera di grande interesse, indispensabile per conoscere la storia di un popolo indigeno a lungo dimenticato, ma che finalmente comincia a guadagnare una certa visibilità.
Riet Delsing, laureata in antropologia, vive a Santiago. Specialista della questione rapanui, ha dedicato vari saggi e relazioni al tema.

Per altre informazioni:

www.uhpress.hawaii.edu 

www.facebook.com/riet.delsing

Violenza sugli indiani del Canada moderno

In Italia più che altrove, lo scarso interesse per i problemi dei popoli indigeni affonda le radici in stereotipi radicati. Uno è quello che considera "grandi democrazie" paesi come gli Stati Uniti, l'Australia e il Canada.
Queste idee false svanirebbero come neve al sole se si desse uno sguardo alla situazione dei popoli indigeni.
Fortunatamente, però, stanno emergendo studiosi che pubblicano libri atti a demolire questi stereotipi. 
Uno di loro è Clara Csilla Romano, autrice di Violenza sugli indiani del Canada moderno. Giustizia riparativa (Temperino rosso, Brescia 2015, pp. 94, € 12), che si inserisce a pieno titolo in questo panorama.
Il libro prende le mosse dalla tragica esperienza delle "scuole residenziali", i convitti dove molti giovani indiani strappati alle famiglie vennero rinchiusi dal 1840 al 1996. L'obiettivo prioritario era la mortificazione delle culture autoctone: dall'abbigliamento al divieto di usare la lingua madre, dall’imposizione del cristianesimo allo studio di una storia falsificata e distorta.
Questa pratica rivoltante venne appicata sia negli Stati Uniti che in Canada, ma il volume si concentra su quest'ultimo paese.
Quello che viene presentato dall'autrice è il processo di riconciliazione che sta cercando di sanare le dolorose ferite culturali e sociali derivate da questa esperienza. In altre parole, un percorso di coraggiosa rinascita dopo abusi, torture e ingiustizie.
Completano il libro varie testimonianze dirette, fra le quali quella di un sopravvissuto di origine algonchina.
Clara Csilla Romano (Varese, 1992), italo-ungherese, ha conseguito la laurea in Scienze Sociali per la Globalizzazione all'Università degli Studi di Milano. Interessata in particolare alla soluzione dei conflitti sociali e ai problemi delle minoranze, si accinge a concentrarsi sui problemi della minoranza zingara dell'Ungheria.
Merita molta attenzione anche la casa editrice, nata a Brescia nel 2010. Come si legge sul suo sito, i responsabili vogliono "incentivare e seguire nel loro sviluppo tutte quelle forme artistiche che, pur possedendo delle valide prerogative d'emancipazione, risultino essere per svariati motivi minoritarie".  

Per altre informazioni: 

www.temperino-rosso-edizioni.com

 

Tundra Songs

Esiste un legame consolidato fra la ricerca musicale "colta" e le culture indigene. Lo attestano autori come Alfred Hill ("Maori Symphony", 1896-1900), Ferruccio Busoni ("Indianisches Tagebuch", Tony Hymas ("Oyaté", 1980) e Gloria Coates ("Indian Sounds", 1991), giusto per fare qualche nome.
La conferma più recente di questo legame è il CD Tundra Songs (Centrediscs, 2015), che il Kronos Quartet ha realizzato insieme alla cantante inuit Tanya Tagaq. I sei pezzi del disco, composti da Derek Charke, sono ispirati alla cultura inuit.
Le ardite sperimentazioni vocali di Tanya Taqag si sposano perfettamente con gli archi del celebre quartetto statunitense.
Il testo di "Tundra Songs", il lungo brano che chiude il CD, è ispirato alla storia di Sassuma Arnaa (nota anche come Sedna), dea del mare nella mitologia inuit. L'autrice è Laakkuluk Williamson Bathory.   
Il Kronos Quartet, quartetto d'archi fondato da David Harrington nel 1973, è uno dei più prestigiosi gruppi di musica contemporanea. La sua versatilità gli ha consentito di spaziare da Alfred Schnittke a Charles Mingus, da Jimi Hendrix ai Sigur Rós. Fra i suoi lavori più recenti ricordiamo "Rainbow: Music Of Central Asia Vol. 8" (2010), "Music of Vladimir Martynov" (2011) e "Aheym: Kronos Quartet plays music by Bryce Dessner" (2013).
Tanya Tagaq Gillis canta secondo una modalità canora tipica del popolo inuit, il canto di gola (katajjaq), per molti versi affine a quello dei popoli indigeni siberiani. La sua discografia comprende fra l'altro "Sinaa" (2005) e "Auk/Blood" (2008). 
Laakkuluk Williamson Bathory è una cantante e scrittrice inuit che vive a Iqaluit (Nunavut/Canada).
Derek Charke, flautista compositore canadese, ha ricevuto vari premi, fra i quali il JUNO Award.

http://kronosquartet.org

www.musiccentre.ca

www.tanyatagaq.com

Il rumore delle perle di legno

Oggi, venerdì 24 aprile 2015, si commemora in tutto il mondo il centenario del genocidio armeno (o per meglio dire, il genocidio di tutte le minoranze cristiane dell'impero ottomano, quindi anche Assiri e Greci del Ponto). Almeno tre milioni di persone vennero uccise nelle stragi ideate e realizzate dai Giovani Turchi, il partito repubblicano che voleva costruire un paese monoetnico, monoreligioso e monolinguistico.
Questa ricorrenza ci sembra il momento migliore per segnalare Il rumore delle perle di legno, il nuovo romanzo di Antonia Arslan, la celebre studiosa padovana di origine armena già nota per "La masseria delle allodole" (Rizzoli, 2004) e "La strada per Smirne" (Rizzoli, 2009). 
Il nuovo libro (Rizzoli, Milano 2015, pp. 182, € 17), che si ricongiunge alla "Masseria delle allodole", parte dalla Seconda Guerra Mondiale per arrivare fino agli anni Sessanta. Si tratta di un romanzo autobiografico, nel quale si intrecciano persone, fatti e ricordi. Come anche gli amori della protagonista, i suoi viaggi in Grecia, la scoperta della propria identità armena.
Scritto col cuore ma al tempo stesso alieno da ogni leziosità, il libro conferma le doti narrative e lo spessore culturale dell'autrice. Antonia Arslan (Padova, 1938), laureata in archeologia, ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Padova. Autrice di vari saggi sulla narrativa popolare, oggi dedica gran parte del proprio impegno letterario e accademico alla cultura armena. Fra le sue numerose opere ricordiamo "Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento" (CLEUP, 1977), "Il libro di Mush" (Skira, 2012) e "Il calendario dell'avvento" (Piemme, 2013).

Per altre informazioni:

www.rizzoli.eu

 

Begegnungen auf Feuerland:
Selk'nam, Yámana, Kawesqar
Fotografien von Martin Gusinde 1918-1924

Fra il 1918 e il 1924 Martin Gusinde (1886-1969), missionario ed etnologo austriaco, fece quattro viaggi nella Terra del Fuoco, l'arcipelago situato all'estremità meridionale del Sudamerica. Durante i suoi soggiorni poté assistere alle cerimonie dei popoli indigeni e conoscere le loro culture. Inoltre fece molte fotografie, raccogliendo così una grande quantità di materiale su queste culture remote.  
Il libro Begegnungen auf Feuerland: Selk'nam, Yámana, Kawesqar (Hatje Cantz Verlag, Ostfildern 2015, pp. 299, € 68) contiene oltre 200 foto in bianco e nero scattate all'epoca da Gusinde. Il materiale documenta la vita quotidiana di questi popoli, alcuni dei quali sono purtroppo estinti in seguito alla feroce persecuzione dei coloni europei.
Completano il volume i testi di Christine Barth, Anne Chapman, Dominique Legoupil, Marisol Palma Behnke e dello stesso Gusinde.
Chi vuole conoscere meglio questa tragedia dimenticata troverà un complemento ideale nel libro "Cacciatori di indios" (Guanda, 2003) dello scrittore cileno Francisco Coloane. 

Per altre informazioni:

www.hatjecantz.de

Climate Change and Genocide:
Environmental Violence in the 21st Century

inora soltanto pochi studiosi hanno approfondito i legami fra i mutamenti climatici e le condizioni dei popoli che ne vengono maggiormente colpiti. In Italia può sembrare strano parlare di "violenta ambientale", eppure si tratta di una realtà innegabile che sembra destinata ad aggravarsi, travolgendo milioni di persone, soprattutto nel Sud del mondo.
Appunto perciò ci sembra necessario segnalare il libro Climate Change and Genocide: Environmental Violence in the 21st Century (Routledge, London 2015, pp. 134, $145.00), curato da Jürgen Zimmerer.
Il volume vuole stimolare un dibattito che coinvolga gli studiosi delle due materie evocate nel titolo (mutamenti climatici e genocidio).
All'opera hanno contribuito esperti di grande rilievo, fra i quali Daniele Conversi, Rebecca Hofmann, Tobias Ide e Gregory Kent.
Il risultato è un panorama esauriente sia in termini geografici che disciplinari. I testi erano già stati pubblicati in un numero speciale della rivista "The International Journal of Human Rights" (XVIII, 3, 2014).
Jürgen Zimmerer insegna Storia all'Università di Amburgo. Presidente dell'INOGS (International Network of Genocide Scholars), ha pubblicato numerosi libri e saggi sul genocidio, sul colonialismo tedesco e sulla violenza ambientale.

Per altre informazioni:
www.routledge.com

Crying Earth Rise up

Coloro che hanno a cuore la situazione dei popoli indigeni non possono dimenticare i gravi problemi ambientali che la maggior parte di loro deve fronteggiare. Dall'Amazzonia al Borneo, dalle regioni artiche al Pacifico, questi popoli sono vittime dei cambiamenti climatici e delle attività economiche che vengono realizzate senza considerane le ricadute ambientali, culturali ed economiche che ueste avranno su di loro. 
In Italia l'informazione su questi temi è molto scarsa, se non inesistente, ma per fortuna esistono libri e film in inglese per chi sente il bisogno di colmare questa grave lacuna. 
Uno di questi strumenti è il documentario Crying Earth Rise up (Stati Uniti, 2014, 57'), che si concentra sugli Indiani nordamericani.
Le protagoniste sono due donne lakota (sioux) che cercano una risposta a queste domande: perché la nostra acqua è inquinata dalle radiazioni
di uranio? Cosa possiamo fare per proteggere la nostra comunità da questa minaccia?
Il documentario è stato diretto e prodotto da Suree Towfighnia, che nel 2003 ha creato il Lakota Media Project con lo scopo di dare ai Lakota i materiali didattici e tecnici per poter raccontare le proprie esperienze. 
Il coproduttore è Courtney Hermann, che aveva già prodotto un altro documentario sugli Indiani del Nordamerica, "Standing Silent Nation". 
Insieme al regista suddetto Hermann ha fondato la Prairie Dust Films, che ha realizzato entrambi i documentari.

Per altre informazioni: 

www.cryingearthriseup.com

www.facebook.com/cryingearthriseup

https://vimeo.com/67243540 (presentazione)

www.prairiedustfilms.com

Religion in Southeast Asia:
An Encyclopedia of Faiths and Cultures

L'Asia offre la più impressionante varietà religiosa del pianeta. Religion in Southeast Asia: An Encyclopedia of Faiths and Cultures, che si limita a esaminare la parte sudorientale del continente, ce lo conferma in modo chiaro. Gli stati in questione sono nove: Brunei, Birmania, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malaysia, Thailandia e Vietnam. Il libro (ABC-CLIO, Santa Barbara [CA] 2015, pp. 396, $89.00) è curato da Jesudas Matthew Athyal.
Naturalmente l'opera non tratta soltanto delle religioni più note e diffuse (ebraismo, induismo, islamismo, etc.), ma fornisce un panoramna globale nel quale trovano spazio anche aleviti, baha'i, shintoisti, yezidi, zoroastriani e tanti altri, senza tralasciare il mosaico ignoto delle religioni tribali.  
Redatto da studiosi autorevoli, il volume contiene 150 voci che compongono un panorama vario e affascinante. Una lettura quasi obbligatoria per chi vuole conoscere la ricchezza culturale e religiosa del pianeta.
Jesudas Matthew Athyal è ricercatore presso il Center for Global Christianity & Mission (Boston University School of Theology). Specialista di religioni asiatiche, ha pubblicato numerosi saggi e libri. Ha collaborato alla "Oxford Encyclopedia of South Asian Christianity" (Oxford University Press, 2012) come curatore associato.

Per altre informazioni:

www.abc-clio.com

La France comme si...
L'improbable réforme du système jacobin

In Italia, per molti anni, gli esponenti della Lega Nord avevano attaccato il centralismo. Ma in pratica solamente quello romano, senza mai fare il minimo accenno a quello che avrebbe dovuto essere un bersaglio ideale: quello francese.
Non solo, ma nel nome della lotta contro l'euro si sono perfino alleati col Front National, che rappresenta l'espressione più virulenta del centralismo transalpino.
In Francia, intanto, la critica radicale al centralismo giacobino si sta facendo sempre più visibile e più argomentata. Lo conferma il libro La France comme si... L'improbable réforme du système jacobin (Le Temps Editeur, Pornic 2015, pp. 276, € 15), scritto da Yvon Ollivier. 
L'autore crede che la riforma radicale del sistema giacobino sia molto difficile, perché questo è la pietra angolare sulla quale è stata editicata la "repubblica una e indivisibile". Al tempo stesso, però, ritiene che una simile riforma sia urgente e indispensabile. In effetti il centralismo ha isolato la Francia, mortificando la ricchezza culturale espressa dalle sue regioni.
Un saggio di grande attualità. Non solo per i lettori francesi, ma anche per quelli italiani, che in larga parte ignorano beatamente quello che accade in questo paese confinante, abitato da "cugini" che rimangono in realtà degli estranei.  
Yvon Ollivier, magistrato bretone, ha pubblicato "La désunion française" (L'Harmattan, 2012) e "Gueule cassée - Lom ar geol (Yoran Embanner, 2014). Fa parte dell'Institut culturel de Bretagne.

Per altre informazioni:

http://an-amzer.com