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L'indipendentismo sardo:
Le ragioni, la storia, i protagonisti

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Negli ultimi anni la nostra stampa ha dato ampio spazio alla Catalogna e alla Scozia per il fermento separatista che si era radicato da anni nelle due regioni, raggiungendo una percentuale di consensi che non potevano essere ignorati.
Purtroppo il fermento scozzese e quello catalano sono stati presentati nel modo che abbiamo contestato più volte, cioè disegnando mostruosi pasticci dove convivono leghisti e indiani nordamericani, tibetani che lottano contro il colonialismo cinese e separatisti scozzesi. 
Dato che ormai il separatismo è un fenomeno che non può essere trascurato, ci sembra imperativo che il tema venga affrontato in modo serio e competente. Per farlo è necessario considerare anche casi meno eclatanti di quelli suddetti, come per esempio quello sardo. 
L'indipendentismo sardo era già stato oggetto di diversi libri, ma mancava un'opera che fornisse una panoramica storica e politica globale del fenomeno. A colmare questa lacuna ha provveduto Adriano Bomboi col libro L'indipendentismo sardo: Le ragioni, la storia, i protagonisti
(Condaghes, Cagliari 2014, pp. 256, € 18).
Ha senso parlare di indipendenza nell'era della globalizzazione? La Sardegna è veramente oggetto di sperequazioni economiche da parte dello Stato o i sardi hanno le loro responsabilità? Ha ancora senso l'autonomia regionale? La lingua sarda è superata? Esiste una nazione sarda?
Il volume cerca di rispondere a queste e a molte altre domande, disegnando un quadro storico completo della tematica. 
Il libro critica la frammentazione dei movimenti indipendentisti e autonomisti isolani, proponendo un indirizzo federalista e progressista. Una lettura necessaria per chi vuole capire davvero certi fenomeni senza cadere ostaggio dei luoghi comuni diffusi dalla stampa periodica.
Comunque la si pensi, quella di Bomboi è una voce che merita di essere ascoltata.
Adriano Bomboi, nato a Nuoro, ha dato vita nel 2005 al gruppo politico-culturale U.R.N. Sardinnya, il primo organismo liberale, moderato ed europeista nella storia del nazionalismo sardo.
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Tueurs sans frontières

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La rivista francese "Europe et Orient" dedica il nuovo numero (19, 2014) al tema Tueurs sans frontières.
Il fascicolo raccoglie contributi su temi molto attuali, fra i quali l'atteggiameeto della Turchia davanti al genocidio armeno, la violenta offensiva anticristiana dell'ISIS, la questione kurda, i problemi economici della Grecia e varie questioni relative al mondo islamico.
Il fascicolo fornisce numerosi spunti di riflessione.
Al numero hanno contribuito numerosi esperti, fra i quali Matthieu Béguelin, Bruno Colmant, Pepe Escobar, Maurice-Ruben Hayoun, Mahdi Darius Nazemroaya e Tigrane Yegavian.
"Europe et Orient", rivista di geopolitica dedicata all'area europea, caucasica e mediorientale, viene pubblicata dall'Institut Tchobanian di Alfortville (Francia). Il direttore è Jean V. Sirapian.
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Regional Language Policies in France during World War II

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La Francia è uno dei paesi che si sono impegnati nel modo più certosino per soffocare la propria diversità linguistica. Nonostante questo, le sei lingue minoritarie -alsaziano, basco, catalano, corso, fiammingo e occitano - sono riuscite a sopravvivere grazie al coraggioso impegno di varie associazioni locali.
Il libro Regional Language Policies in France during World War II (Palgrave Macmillan, London 2014, pp. 196, £58.00) analizza la condizione di alcune lingue minoritarie durante l'ultimo conflitto mondiale. Il volume, scritto da Aviv Amit, esamina dettagliatamente le politiche linguistiche applicate in Alsazia, Bretagna, Corsica e nelle regioni meridionali del paese.
Opera stimolante e documentata, il volume conferma il notevole interesse per le minoranze linguistiche della Francia che si sta affermando negli ultimi anni.
Aviv Amit è ricercatore presso il Dipartimento di Studi francesi dell'Università di Tel Aviv University. Autore di articoli su  questioni linguistiche, con particolare attenzione per l'area francofona, ha pubblicato "Continuité et changements dans les contacts linguistiques à travers l’histoire de la langue française (L'Harmattan, 2013).
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Polinesia, un paradiso che muore

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Negli ultimi secoli molti spiriti inquieti e avventurosi hanno subito il fascino della Polinesia e dell'Oceania in generale. Basti pensare a Dea Birkett, Paul Gauguin o Jack London. Ispirati da quelle isole lontane, molti di loro ci hanno lasciato dei documenti preziosi: romanzi, racconti dei loro viaggi, disegni. 
Una testimonianza di particolare interesse è quella che ci ha lasciato Alain Gerbault (1893-1941), un navigatore francese che trascorse gli ultimi anni della propria vita nelle isole polinesiane. Gerbault non si limitò a visitare la vasta regione vagando da un'isola all'altra,ma scrisse alcuni libri che esaltano la cultura polinesiana e condannano la loro aggressione da parte della civiltà industriale.
Uno di questi libri ("Un paradis se meurt", 1949) è stato pubblicato recentemente in italiano: Polinesia, un paradiso che muore, untitolo che coglie appieno la sostanza del messaggio di Gerbault ed esprime perfettamente il suo grido disperato di ribellione.
L'opera (Mare Verticale, Grancona [Vicenza] 2014, pp. 300, € 18) è il suo canto d'amore per la Polinesia, alla quale il navigatore dedicò i suoi ultimi anni di vita e le sue ultime forze. 
Il grido di protesta levato da Gerbault suona profetico. Negli anni Sessanta, dopo l'indipendenza dell'Algeria, la Francia cercherà unnuovo territorio per gli esperimenti nucleari che faceva nel Sahara. Scartata la Corsica in seguito alle proteste locali, Parigi individuerà nella Polinesia "francese" il luogo adatto per continuare le sue esercitazioni. 
Il libro di Gerbault rappresenta una lettura molto utile, se non obbligatoria, per coloro che hanno a cuore la diversità culturale.
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Mare Monstrum.
Immigrazione: bugie e tabù

In Italia il problema dell'immigrazione non viene affrontato soltanto in ritardo, ma anche in modo manicheo: per alcuni il migrante sarebbe un fratello da accogliere a braccia aperte sempre e comunque, secondo altri un pericoloso invasore da respingere. Entrambe le posizioni sono sbagliate e non risolvono il problema dell'immigrazione di massa, che invece reclama una soluzione equa e tempestiva.
Alcune riflessioni alternative sono state raccolte da Alessio Mannino in Mare Monstrum. Immigrazione: bugie e tabù (AriannaEditrice, Bologna 2014, pp. 96, € 9,80, sul sito dell'editore € 8,33). 
Il libro contiene interviste a studiosi e giornalisti come Alain De Benoist, Massimo Fini, Diego Fusaro e Maurizio Pallante.
Quello che emerge dalle loro riflessioni è un quadro chiaro: la "migrazione felice" è un' illusione strumentale che nasconde il lato oscuro di un futuro senza differenze. Un danno per tutti, sia per chi arriva che per chi ospita.
Una singolare ma eloquente coincidenza vuole che questo libro esca proprio mentre i media portano in primo piano la rete mafiosa che fa capo all'amministrazione comunale romana, per la quale lo sfruttamento dell'immigrazione rappresenta la linfa vitale.
Le edizioni Arianna, fondate e dirette da Eduardo Zarelli, propongono un ottimo catalogo di libri non conformisti sull'ecologia, lapolitica internazionale, la critica al capitalismo e alle "guerre giuste".
Alessio Mannino (Palermo, 1980) vive a Vicenza, dove lavora come giornalista. Dirige il quotidiano telematico "La Nuova Vicenza" ecollabora a "La voce del ribelle". Cura il blog "Asso di picche".
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Atatürk in the Nazi Imagination

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Chi è stato in Turchia ha potuto vedere che in questo paese Mustafa Kemal Pasha (1881-1938), più noto come Atatürk (padre deiTurchi), viene idolatrato come una divinità. Negli ultimi anni questo culto ha subito una leggera flessione, ma il fondatore della Turchia rimane presente nei luoghi pubblici con fotografie, ritratti, statue. 
In molti paesi europei, compresa l'Italia, si è diffusa un'ammirazione piuttosto acritica per lui. Secondo un radicato conformismo distampo progressista, il fatto che Atatürk abbia fondato una Turchia "laica e moderna" è bastato perché venissero dimenticate leorribili nefandezze che aveva compiuto per raggiungere questo obiettivo. Fra queste, il tentativo di cancellare la ricchezza multiculturale ereditata dall'impero ottomano, rimpiazzandola con un centralismo grigio e soffocante. Non a caso il suo modello era stata la Francia repubblicana, nemicagiurata delle minoranze e della diversità culturale. Un solo popolo, una sola lingua, una sola cultura: questa è la pietra angolare sulla quale sono stati costruiti entrambi gli stati. Ferme restando, ovviamente, le differenze che li separano.     
Negli ultimi anni, però, l'attenzione per la Turchia ha stimolato studi più attenti sulla sua storia, grazie ai quali iniziano a vacillare i radicati luoghi comuni che vedono in Atatürk un luminoso eroe del progresso.  
Uno di questi viene proposto da Stefan Ihrig, autore di Atatürk in the Nazi Imagination (Harvard University Press, pp. 320, $29.95). 
L'opera approfondisce una pagina storica poco nota del ventennio fra le due guerre mondiali: le relazioni fra la Germania hitleriana e la neonata repubblica turca.
Molti tedeschi, soprattutto a destra, videro nella Turchia un modello da imitare: un paese autoritario, centralizzato, moderno. Perfino il genocidio armeno esercitò un notevole fascino su di loro. Naturalmente non si può imputare ad Atatürk il fatto che Hitler lo ammirasse, né il fatto che in Turchia "Mein Kampf" sia ancor oggi un best seller (il titolo turco è "Kavgam"). Ma la cosa cambia aspetto se si considerano le notevoli somiglianze fra i due paesi. Un'opera di enorme valore storico e culturale, un libro che dovrebbe essere tradotto in italiano.
La sua utilità va ben oltre il caso particolare, perchè ci stimola ad accantonare due pessime abitudini. Una consiste nel valutare  l'azione
politica unicamente per i suoi risultati, prescindendo dai mezzi che vengono utilizzati per raggiungerli. L'altra consiste nel condannare le
mostruosità delle dittature ma tollerare le stesse se vengono compiute da un regime formalmente democratico come quello di Atatürk.
Stefan Ihrig si è laureato all'Università di Cambridge con una tesi sul tema "Nazi Perceptions of the New Turkey, 1919-1945". Specialista di storia europea e delle relazioni fra la Germania e l'impero ottomano è, è Polonsky Fellow al Van Leer Jerusalem Institute.
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Mothers of the Nations:
Indigenous Mothering as Global Resistance, Reclaiming and Recovery

Se le donne hanno conosciuto - e ancora conoscono - discriminazioni di vario tipo in molte parti del mondo, tale fenomeno ha toccato in modo particolare le donne indigene. Questa oppressione non viene solo dalle strutture coloniali nelle quali sono inserite, ma anche dall'interno,
cioè dalle rispettive comunità. Le ultime generazioni hanno denunciato con forza questa situazione. 
Un panorama esauriente del loro riscatto culturale e umano ci viene offerto dal libro Mothers of the Nations: Indigenous Mothering as Global Resistance, Reclaiming and Recovery (Demeter Press, Bradford [ON], pp. 309, $34.95).
Il volume, curato da Dawn Memee Lavell-Harvard e Kim Anderson, fornisce un panorama estremamente vario, sia dal punto di vista tematico che geografico. I problemi sanitari, alimentari, sessuali e didattici trovano ampio spazio su queste pagine. Dal Nordamerica all'Oceania, dalle Filippine all'Africa subasahariana, i problemi di donne inserite in contesti geografici e culturali molto diversi vengono analizzati con la massima accuratezza.
I testi raccolti nel libro hanno un approccio militante, ma questo non ne pregiudica minimamente la qualità scientifica.   
Merita una nota positiva la casa editrice, nata per divulgare i problemi sociali, politici e culturali delle donne amerindiane.   
Dawn Memee Lavell-Harvard (Wikwemikong) è la presidente dell'Ontario Native Women's Association. Autrice di vari libri e saggi sui problemi delle donne indiane, ha curato fra l'altro "'Until our Hearts are on the Ground': Aboriginal Mothering, Oppression, Resistance and Rebirth (Demeter Press, 2006).
Kim Anderson (Cree/Métis) è Professore associato di Indigenous Studies alla Wilfried Laurier University. Si occupa soprattutto dei problemi suddetti. Ha pubblicato vari libri, fra i quali "A Recognition of Being: Reconstructing Native Womanhood" (Sumach/CanadianScholars' Press, 2000) e "Life Stages and Native Women: Memory, Teachings, and Story Medicine" (University of Manitoba Press, 2011).
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The Invisible Front

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Invase prima dall'URSS, poi dalla Germania e quindi ancora dall'URSS, Estonia, Lettonia e Lituania lottarono strenuamente per evitarequello che ormai era inevitabile: l'annessione all'URSS, conseguenza del Patto Molotov-Von Ribbentrop (23 agosto 1939). I partigiani antisovietici, detti Fratelli della foresta, cercarono in ogni modo di opporsi all'occupazione.
A questa pagina eroica ma dimenticata della storia europea è dedicato il film The Invisible Front (tit. orig. lituano "Nematomas Frontas"),che si concentra sulla situazione lituana.
La resistenza non terminò con la Seconda Guerra Mondiale, ma continuò fino al 1956. L'esercito sovietico, pur essendo molto più potente, fu messo a dura prova dai partigiani. In Europa, eccettuate rarissime eccezioni, nessuna voce si levò in difesa di questi popoli che lottavano per la libertà. Per loro il nemico era l'URSS di Stalin, che avendo sconfitto la Germania aveva guadagnato il diritto disoggiogare la parte centro-orientale dell'Europa.
"The Invisible Front" è tratto dal libro autobiografico "Partizanai" (Lietuviskai Kulturai Ygdyti, 1962), scritto da Juozas Lukša (nome di battaglia Daumantas), uno dei capi della resistenza lituana. Il suo libro è stato tradotto in inglese ("Forest Brothers: The Account of an Anti-soviet Lithuanian Freedom Fighter, 1944-1948, Central European University Press, 2009).       
Nel 1948 Daumantas si stabilì a Parigi per rendere nota al resto del mondo la tragedia dei popoli baltici. Nella capitale francese entrò in contatto con i servizi segreti alleati e conobbe Nijole, la donna della sua vita. Fra il 1948 e il 1950 scrisse l'autobiografia suddetta. Il film, premiato al festival "Kino Pavasaris" di Vilnius (2014), è diretto da Jonas Ohman e Vincas Sruoginis. I due sono anche autori del soggetto insieme al produttore Mark Johnston. Il ruolo del protagonista è interpretato da Andrius Mamontovas.
La prima mondiale della versione inglese è stata proiettata a New York il 7 novembre. Speriamo che il film sia presto visibile anche nelle sale italiane. 
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I lupi della foresta:
Con i combattenti baltici per la libertà 1947-1950

Negli ultimi tempi, e in particolare nel 2014, si registra un risveglio d'interesse per la tragedia dimenticata dei paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), che furono annessi all'URSS in seguito al Patto Molotov-von Ribbentrop, siglato da Germania e Unione Sovietica il 23 agosto 1939. L'accordo, che precedette di pochi giorni l'inizio della Seconda Guerra Mondiale (1º settembre 1939), aveva fissato le sfere di influenza del Terzo Reich e dell'Unione sovietica per le zone vicine ai confini dei due stati. 
Le sue conseguenze immediate furono la spartizione del territorio polacco tra le due potenze e l'occupazione delle tre repubblichebaltiche da parte dell'Armata Rossa. Estoni, lettoni e lituani non erano popoli minoritari, ma lo diventarono quando i loro paesi vennero annessi all'Unione Sovietica. Un caso simile a quello del Tibet, che nel 1950 sarebbe stato invaso dall'esercito cinese e annesso alla repubblica comunista guidata da Mao Tse Tung.
Come si diceva, la strenua lotta antisovietica dei paesi baltici sta finalmente guadagnando l'attenzione che meritava. Allaresistenza degli anni Quaranta lo scrittore inglese Geraint Roberts ha dedicato il romanzo "Forest Brothers" (Circaidy Gregory Press, 2013), mentre Guntis Smidchens ha pubblicato "The Power of Song: Nonviolent National Cultures in the Baltic Singing Revolution" (University of Washington Press/ Museum Tusculanum Press, 2014), che si concentra sugli anni precedenti il crollo dell'URSS. 
Anche il cinema ha contribuito a questo fermento, come dimostra il film "The Invisible Front", del quale ci occuperemo più diffusamente. Anche in Italia è uscito un libro sul tema: I lupi della foresta: Con i combattenti baltici per la libertà 1947-1950 (L'assalto, pp. 239, € 26). Il volume, scritto da Ingo Petersson, racconta la storia dei partigiani estoni, lettoni e lituani che lottarono per evitare che le loro terre venissero inghiottite dall'Unione Sovietica. L'autore ci esorta a rispettarli restituendoci questa pagina nobile ma dimenticata della storia europea.
Il fatto che in certi casi i partigiani baltici avessero combattuto a fianco dell'esercito tedesco non deve fornire argomenti a chi vuole screditare questa resistenza anticomunista. In guerra, talvolta, le alleanze non nascono dalle affinità ideologiche, ma dalla necessità di combattere un nemico comune. Del resto, durante la Seconda Guerra Mondiale, non hanno combattuto contro la Germania soltanto socialisti e comunisti, ma anche liberali, conservatori e monarchici. Nei paesi baltici, mutatis mutandis, è accaduta la stessa cosa.  
Sarà proprio da queste repubbliche, alla fine degli anni Ottanta, che comincerà il processo di disgregazione dell'URSS.
Arricchito da un ampio corredo iconografico, il libro mette in luce la casa editrice L'assalto: ancora una volta è stata una sigla piccola ma coraggiosa a colmare un vuoto.
Ingo Petersson (pseudonimo di Frithjof Elmo Porsch, Hamborn, 1924) è uno scrittore tedesco. In Italia è uscito un altro dei suoi libri,"Un manipolo di disperati. La saga del battaglione d'assalto SS 500" (Ritter, 2012).
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Sámi Musical Performance and the Politics of Indigeneity in Northern Europe

Nel corso degli ultimi vent'anni le espressioni musicali dei popoli indigeni sono uscite dalla marginalità.
Basti pensare al successo di gruppi rock tuareg come Tinariwen e Tartit; ad aborigeni australiani come Geoffrey Gurrumul; a sami (lapponi) come Mari Boine (inizialmente nota come Mari Boine Persen). Questo fenomeno è stato facilitato dal rilievo internazionale che i problemi dei popoli indigeni avevano guadagnato negli ultimi decenni del secolo scorso. Perfino l'ONU, storicamente sorda a questo tema, aveva cambiato rotta dando vita al gruppo di lavoro che avrebbe elaborato la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli indigeni (approvata dall'ONU il 13 settembre 2007).
Anche l'affermazione planetaria della world music ha dato visibilità alle musiche indigene, stimolando un forte interesse accademico. Questo non ha prodotto solamente saggi d'interesse generale, ma anche opere dedicate a contesti specifici, come "Musique touarègue: Du symbolisme politique à une singularisation esthétique" (L'Harmattan, 2012) di AnouckGenthon.
Un nuovo segno di questo interesse è Sámi Musical Performance and the Politics of Indigeneity in Northern Europe (Rowman &Littlefield, Lanham [MD] 2014, pp. 264, $76.50), scritto da Thomas R. Hilder.
Nel libro occupa un ruolo centrale la cantante Mari Boine, che compare sulla copertina. Lappone della Norvegia, l'artista ha guadagnato fama mondiale grazie a Peter Gabriel, che nel 1990 ha pubblicato il suo CD "Gula gula" con l'etichetta Real World, creata dal musicista inglese l'anno prima. Mari Boine ha costruito un percorso artistico molto vario, collaborando con musicisti come Jan Garbarek e  Prendendo spunto da questo percorso Hilder ricostruisce la storia del popolo sami e la sua lotta contro l'assimilazione culturale. Evidenzia il ruolo che questa minoranza artica ha svolto nel movimento indigeno internazionale, promuovendo varie iniziative e partecipando ativamente a quelle organizzate dall'ONU.In tempi più recenti i Sami hanno confermato questo impegno dando vita al Riddu Riđđu Indigenous Peoples' Festival.
Il libro sottolinea che le culture indigene sono capaci di uscire dalla marginalità e confrontarsi con la modernità senza dover rinunciare alla propria identità. 
Thomas R. Hilder è un etnomusicologo che lavora come ricercatore al Center for World Music dell'Università di Hildesheim(Germania). Esperto di musica popolare dei paesi nordici, ha pubblicato vari saggi sul tema.
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Música encerrada:
El legado oral de la diáspora sefardí

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Molto probabilmente nessuna minoranza religiosa è stata segnata da una persecuzione lunga e feroce come quella che ha colpito gli ebrei.Non parliamo quindi soltanto della storia recente - la Shoah - ma anche di quello che è avvenuto nei secoli precedenti.
Un esempio è l'editto di Alhambra (31 marzo 1492), col quale Isabella I di Castiglia e Ferdinando II d'Aragona disposero l'espulsione degli ebrei dalla Spagna. Insieme a loro scomparve un prezioso bagaglio culturale fatto di prosa, poesia e musica.
In tempi più recenti, fortunatamente, alcuni musicisti hanno lavorato per ricomporre i frammenti dispersi di questo patrimonio culturale e per farlo conoscere. Uno di questi è la cantante valenciana Mara Aranda, che ha appena realizzato il CD Música encerrada: El legado oral de la diáspora sefardí (CdM, 2014) insieme alla Capella de Ministrers.
Realizzato sotto la direzione di Jota Martinez, esperto di musica antica, il CD propone testi poetici e religiosi della tradizione giudaica medievale. Questo materiale costituisce parte integrante della cultura spagnola, che non coincide semplicemente con quella castigliana, come talvolta si sente dire.
La formazione include Mara Aranda (voce), Carles Magraner (viola), David Antich (flauto), Jota Martínez (baglama, fisarminica, lavta), Aziz Samsaoui (kanun) e Pau Ballester (percussioni).
Analogamente a quanto ha fatto Kudsi Erguner con la musica ottomana, questi artisti iberici ci danno la possibilità di conoscere dei tesori musicali che rischiavano di andare perduti.
Figura centrale della musica tradizionale mediterranea, Mara Aranda vanta una discografia che percorre questa regione con grande estensione geografica e temporale, dal Medioevo al Rinascimento. Fra i suoi numerosi lavori ricordiamo "Cor de Porc", col gruppo L'Ham de Foc (Galileo, 2005), "Deus et diabolus", con Al Andaluz Project (Galileo, 2007), e "Lo testament", con Solatge (Bureo músiques, 2013). Mara ha collaborato con David Cervera, Luigi Cinque e altri artisti.
Capella de Ministrers è un gruppo di musica antica creato a Valencia nel 1987 da Carles Magraner, che lo dirige tuttora. Il suo repertorio  abbraccia il Medioevo e il Rinascimento. Ha inciso dischi di grande valore musicale e storico, fra i quali "Cançoner del Duc de Calábria" (EGT, 1990), "Oratorio sacro a la pasión de Cristo" (CDM, 1999) e "Música angélica. El repertorio mariano medieval" (Institut Valencià de la Música, 2008).
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Zionism and its Discontents:
A Century of Radical Dissent in Israel/Palestine

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In Italia, ma anche in altri paesi, esistono ancora molte persone che confondono l'antisemitismo e l'antisionismo, dimenticando che il primo postula l'inferiorità degli ebrei e ne ricava un atteggiamento ostile che può assumere varie forme, fino allo sterminio fisico. Il secondo, al contrario, è un orientamento politico legittimo unicamente legato allo stato d'Israele.
Un dettagliato panorama storico dell'antisionismo e delle sue manifestazioni ci viene offerto da Ran Greenstein nel libro Zionism and its Discontents: A Century of Radical Dissent in Israel/Palestine (Pluto Press, London 2014, pp. 248, £54.00).
Il volume esamina quattro movimenti politici che cercarono di contrastare il sionismo prima e dopo la nascita dello stato israeliano, fra i quali il Partito Comunista Palestinese e il gruppo radicale Matzpen, attivo fra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso.  
Come impone il contesto politico in questione, l'autore analizza anche vari temi connessi,come il colonialismo israeliano, i diritti della minoranza palestinese e la dimensione internazionale. Un lavoro attento e documentato che colma un vuoto.
Ran Greenstein è Professore associato all'Università di Witwatersrand (Sudafrica). Esperto di storia israeliana e sudafricana, ha pubblicato fra l'altro "Genealogies of Conflict: Class, Identity and State in Palestine/Israel and South Africa" (1995).
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Devolution and Localism in England

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Durante gli ultimi anni i fermenti autonomistici del Regno Unito (Cornovaglia e Galles) e il separatismo scozzese hanno stimolato un vivace dibattito sul futuro della regione più grande, l'Inghilterra (130.279 kmq). In questo caso, ovviamente, si parla soltanto di decentramento  amministrativo, visto che qui non esiste nessuna diversità culturale o linguistica da tutelare. In ogni caso si tratta di un tema che merita una certa attenzione.
Chi lo vuole approfondire troverà un valido aiuto nel libro di David M. Smith ed Enid Wistrich Devolution and Localism in England (Ashgate, London 2014, pp. 134, £54.00).
Secondo gli autori la regione inglese, col suo sistema fortemente centralizzato e spesso inefficiente, rappresenta un problema che necessita di un intervento radicale. A questo scopo il libro propone alcune soluzioni -decentramento, governo regionale, regioni metropolitane, etc.- basate su analisi dettagliate.
Viene riservata particolare attenzione ai processi democratici di tipo subnazionale, che i due autori hanno studiato per molti anni.
Il libro stimola anche una riflessione più ampia. Per trasformare lo stato centralizzato in stato federale, o comunque per promuovere ampie autonomie locali, non basta che queste siano garantite soltanto alle regioni con caratteristiche culturali particolari (Cornovaglia, Galles,
Irlanda del nord e Scozia). Alcuni mutamenti, seppur adattati al contesto, devono essere introdotti anche in quelle che esprimono la cultura maggioritaria (Inghileterra).
Naturalmente non si tratta di un concetto che riguarda soltanto la Gran Bretagna. 
David M. Smith ha insegnato Sociologia alla Middlesex University. Oggi è Professore Emerito e si occupa soprattutto di politiche sociali.
Enid Wistrich ha insegnato Scienze politiche allo stesso ateneo. Si occupa prevalentemente di temi relativi al governo locale di Londra.
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Thaler di nome Franz: L'uomo della pace

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L'articolo 6 della Costituzione italiana afferma che "L'Italia tutela con apposite norme le minoranze linguistiche". Eppure larga parte di coloro che inneggiano alla carta costituzionale non ha mai reclamato una legge che lo attuasse: questa è stata approvata soltanto nel 1999, quindi oltre mezzo secolo dalla nascita dell'Italia repubblicana. Soltanto dopo, seppure fra mille incertezze, i problemi delle minoranze sono usciti dalla marginalità per diventare oggetto di una certa attenzione.
Questo ritardo culturale era analogo a quello che molti - giornalisti, intellettuali, studiosi - avevano già dimostrato nei confronti delle minoranze italiane stanziate in Jugoslavia (giuliani, istriani e dalmati).    
Poi, grazie ai romanzi di Boris Pahor, il grosso pubblico ha conosciuto finalmente le immani sofferenze della minoranza slovena di Trieste, Gorizia e località limitrofe. 
Quelle della minoranza sudtirolese sono state scoperte ancora più tardi, cioè negli ultimi anni. Fra quelli che si sono adoperati per farle conoscere spicca il regista fiorentino Massimo Tarducci, autore del documentario Thaler di nome Franz: L'uomo della pace.
Nato nel 1925 a Reinswald, Thaler rifiutò di servire con le armi il regime nazionalsocialista. Quindi fu ricercato dalla Gestapo, catturato e deportato a Dachau. Sopravvissuto a questa tragica esperienza, Thaler l'ha poi raccontata nel libro "Dimenticare mai. Opzioni, campo di concentramento di Dachau, prigioniero di guerra, ritorno a casa" (Raetia, Bozen/Bolzano 1990, rist. 2004).
Dimenticata per lungo tempo, questa figura esemplare viene finalmente considerata come merita.
Il documentario "Thaler di nome Franz: L'uomo della pace" verrà proiettato giovedì 20 novembre (ore 17) presso il Consiglio regionale della Toscana (Sala Gigli, Via Cavour 4, Firenze) nel contesto dell'iniziativa "Gli uomini che dissero no a Hitler", organizzata dalla rivista "Testimonianze". Nello stesso luogo verrà presentato il libro di Francesco Comina "L'uomo che disse no a Hitler. Josef Mayr-Nusser, un eroe solitario" (Il Margine, 2014). Interverranno Andrea Bigalli, Francesco Comina, Albert Mayr, Severino Saccardi, Leopold Steurer e Massimo Tarducci.
Per altre informazioni:
 

War in the Balkans: An Encyclopedic History from the Fall of the Ottoman Empire to the Breakup of Yugoslavia

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La penisola balcanica, che oggi include dieci stati (Albania, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Grecia, Kosovo, Macedonia, Moldavia, Montenegro,
Romania e Serbia) occupa una posizione strategica che ha inciso in modo determinante sulla sua storia. Lo dimostrano le numerose guerre e i
rivolgimenti politici che si sono svolti in questi territori durante l'ultimo secolo.
Molte delle principali pagine storiche del Novecento hanno avuto inizio in questa penisola: basti pensare alla caduta dell'impero ottomano, alla Prima Guerra Mondiale, alla frammentazione della Jugoslavia e all'aggressione americana della Serbia.
L'uomo della strada, salvo poche eccezioni, fatica a ricomporre con chiarezza questo quadro storico articolato e complesso. Ma ora può farlo con il volume War in the Balkans: An Encyclopedic History from the Fall of the Ottoman Empire to the Breakup of Yugoslavia (ABC-CLIO, Santa Barbara [CA] 2014, pp. 411, $89.00), curato da Richard C. Hall.
Il libro si concentra sugli avvenimenti, sulle figure storiche e sulle idee che hanno segnato la storia dell'area dalla fine dell'Ottocento a oggi, analizzando con cura anche il ruolo che i paesi balcanici svolgono nel contesto regionale e internazionale.
Per ovvi motivi il libro risulterà molto utile anche a chi segue i problemi delle minoranze.
Richard C. Hall insegna Storia alla Georgia Southwestern State University. ha scritto vari libri, fra i quali "Bulgaria's Road to the First World War" (Columbia University Press, 1996) e "The Balkan Wars 1912-1913: Prelude to the First World War" (Routledge, 2000).
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Russie, le retour

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Il protagonismo della Russia di Putin è un fenomeno importante col quale deve misurarsi chiunque si occupi di politica internazionale. 
Uno strumento molto utile per capire il tema ci arriva dalla Francia, dove la collana "Manière de voir" edita da "Le Monde diplomatique" ha 
pubblicato Russie, le retour (138, décembre 2014 - janvier 2015).
Da Stalin alla questione cecena, dalla Crimea all'Islam russo, senza dimenticare gli attuali contrasti con la NATO, il fascicolo propone un quadro articolato e stimolante della nuova Russia e delle numerose implicazioni geopolitiche connesse alla sua politica attuale.
Fra gli autori dei testi, Nina Bachkatov, Erlends Calabuig, Bernard Féron, Anne Nivat e Olivier Zajec.
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Tepee, trent'anni per i popoli indigeni delle Americhe

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Compie trent'anni Tepee, l'unica rivista italiana dedicata alle lotte politiche e culturali dei popoli amerindiani. La pubblicazione,fondata e diretta dalla studiosa genovese Naila Clerici, è nata come bollettino informativo dell'associazione Soconas Incomindios. Con il passare del tempo si è trasformata in una rivista aperta a contributi di esperti qualificati e di esponenti indigeni.
Originariamente concentrata sulle culture indigene nordamericane, "Tepee" ha poi esteso la propria atenzione agli altri popoli indigeni del continente. Le sue pagine hanno ospitato interviste e poesie, saggi e fumetti, recensioni di libri e film, etc. In questo modo la rivista ha fornito un contributo molto prezioso per abbattere gli stereotipi imposti dal cinema e dalla stampa non specializzata. 
Per festeggiare questo importante traguardo sono state organizzate alcune iniziative. 
Dal 19 al 29 novembre la Biblioteca Berio (Via del Seminario 16, Genova) ospiterà "Indiani con la penna", un'esposizione di tavole ispirate ai nativi americani (lun-sab 8.30-19.00, mar-merc 8.30-22.00).  
Mercoledì 26, nella Sala Chierici della biblioteca suddetta (ore 18), letture da autori nativi americani contemporanei, fra i quali Sherman
Alexie, Louise Erdrich e Scott Momaday.  
All'amica Naila Clerici e all'associazione Soconas Incomindios, con cui abbiamo collaborato varie volte, inviamo gli auguri più sinceri.
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Qui s'en souviendra?
1915: le génocide assyro-chaldéen-syriaque

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Nel 2015 verrà commemorato il genocidio armeno: una tragedia a lungo dimenticata che il governo turco continua a negare.
Come abbiamo scritto varie volte, però, il 1915 non segnò soltanto l'inizio del genocidio armeno, dato che la stessa sorte toccò alle altre minoranze cristiane del morente impero ottomano: Assiri e Greci del Ponto.
Per quanto riguarda in particolare gli Assiri, è appena uscito un ottimo libro che cerca di strappare all'oblio la loro tragedia. Il volume in questione si intitola Qui s'en souviendra? 1915: le génocide assyro-chaldéen-syriaque (Les Éditions du Cerf, Paris 2014, pp. 304, € 24). L'autore è lo studioso assiro Joseph Yacoub. 
Prima opera di grande respiro sul genocidio assiro, il libro ci permette di conoscere questo dramma dimenticato nel quale perse la vita mezzo milione di persone. Altri fuggirono in vari paesi: oggi esiste una diaspora assira in Germania, Olanda, Svezia, etc.
Purtroppo il calvario di questo popolo non è ancora finito. Negli ultimi anni, dopo l'invasione americana dell'Irak, la persecuzione degli Assiri è ricominciata. La violenza spietata degli estremisti islamici non conosce sosta. Il genocidio continua.
Joseph Yacoub (Hassakeh, Siria, 1944) è Professore Emerito dell'Universitè Catholique di Lione. Esperto dei problemi delle minoranze, ha pubblicato numerose opere, fra le quali ricordiamo "Les minorités dans le monde: Faits et analyses" (Desclée de Brouwer, 1999) e "Au nom de Dieu! Les guerres de religion d'aujourd'hui et de demain" (Lattès, 2002). 
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Des États de facto: Abkhazie, Somaliland, République turque de Chypre nord...

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Oggi, insieme agli stati propriamente detti, ne esistono molti altri che non godono di un riconoscimento internazionale. Dalla Transnistria alla Repubblica turca di Cipro nord, dal Somaliland alla Repubblica Araba Saharawi Democratica, questo fenomeno tocca almeno tre continenti: Africa, Asia ed Europa.
Si tratta di un fenomeno in espansione: il 7 aprile scorso è stata proclamata la Repubblica Popolare di Donetsk, seguita il 27 aprile dalla Repubblica di Lugansk. Entrambe sono parted dell'Ucraina e confinano con la Russia. Questi stati virtuali, però, non possono esser liquidati con una risata come la cosiddetta "Padania", dato che la loro permanenza crea dei problemi concreti: guiridici, politici, territoriali. 
Di questa materia poco chiara si occupa il libro Des États de facto: Abkhazie, Somaliland, République turque de Chypre nord... (L'Harmattan, Paris 2014, pp. 264, € 25,65), scritto da Maurice Bonnot.
Primo lavoro organico sul tema, il volume analizza accuratamente il vuoto giuridico e politico nel quale vivono queste entità territoriali. L'autore dimostra che alcune si trovano in condizioni di piena normalità, lontane dagi stereotipi che le vorrebbero terre lasciate in preda all'anarchia. Al tempo stesso Bonnot avanza alcune proposte pratiche per risolvere i problemi che questa situazione comporta.
Maurice Bonnot, diplomatico francese in pensione, si occupa del tema suddetto e partecipa a varie iniziative sul tema. 
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The Ancestor Circle

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In teoria non dovremmo occuparci del nuovo CD The Ancestor Circle (Prokjekt, 2014), che vede insieme Steve Roach e Jorge Reyes (1952-2009).
Ma in realtà sarebbe un grave errore trascurarlo, perchè il disco è il frutto di una lunga collaborazione artistica dove il riferimento alle culture indigene gioca un ruolo molto importante.
Nel nuovo CD i ritmi tribali di Reyes e le complesse architetture elettroniche di Roach si intrecciano e si fecondano magistralmente. I due artisti, pur venendo da esperienze diverse, condividevano una sensibilità che si era già espressa in "Vine ~ Bark & Spore" (Timeroom 2000).
Lontano anni luce dai toni zuccherosi della New Age, il nuovo CD offre 72 minuti di musica vera, dove tradizione e avanguardia si incontrano fino a confondersi l'una con l'altra. 
"The Ancestor Circle", ricavato da nastri che Steve Roach ha ritrovato nel 2013, è l'ultimo frutto della collaborazione fra i due musicisti, perché purtroppo Jorge Reyes è morto d'infarto il 7 febbraio 2009, a soli 56 anni. 
Jorge Reyes (Uruapan, 1952) ha esordito come chitarrista in gruppi rock messicani come Nuevo Mexico e Chac Mool. Poi ha visitato varie parti del mondo, dove ha imparato a suonare molti strumenti e ha approfondito la conoscenza di tradizioni musicali antichissime. Negli stessi anni ha sviluppato un forte interesse per la musica precolombiana. Questa è divenuta il punto di partenza per costruire una complessa architettura
sonora dove le culture mesoamericane si intrecciavano con le opportunità offerte dalle apparecchiature elettroniche.
A queste ha affiancato molti strumenti tradizionali: conchiglie, didgeridoo, flauti, percussioni, pietre, vasi di terracotta, etc. 
Autore di una vasta discografia, Reyes ha scritto anche varie colonne sonore per la televisione e per il cinema. Spicca quella composta per "La otra conquista" (Sony, 1999), un lungometraggio che narra la storia dell'invasione spagnola rileggendola dalla parte dei vinti. 
Steve Roach (La Mesa, 1955), originariamente influenzato dai celebri "corrieri cosmici" tedeschi(Ash Ra Tempel, Tangerine Dream, etc.), ha  pubblicato almeno un centinaio di dischi,imponendosi come una figura centrale della musica elettronica. Nella sua vasta discografiatrovano spazio lavori realizzati insieme a David Hudson, virtuoso di didgeridoo ("Australia:Sound of the Earth", Fortuna, 1990) e al monaco tibetano 
Thupten Pema Lama ("Prayers to the Protector", Fortuna, 2000). Ma la collaborazione con Reyes occupa un posto particolare nella lunga carriera del musicista americano. Il trio Suspended Memories, dove sono affiancati dal chitarrista spagnolo Suso Siaz, ha inciso "Forgotten Gods" (Hearts of Space, 1992) ed "Earth Island" (Hearts of Space, 1994).